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Fantasia d'Amore : Amore che distrugge
Henry PURCELL (1659-1695)
“When I am laid in earth” (dall’opera Dido and Aeneas)
La nostra epoca offre tante e tali possibilità di distrazione, da garantire un’infinità di rimedi non solo contro la noia, ma anche contro i più pungenti dispiaceri di cuore. Oggi è assai improbabile che un innamorato infelice arrivi al punto di togliersi la vita. Un tempo, gesti estremi di tal genere erano senz’altro più frequenti di quanto si verifichi attualmente fra noi e, se pure non lo erano nella realtà quotidiana, non si può negare che le generazioni passate nutrissero almeno una spiccata passione per spettacoli e narrazioni di fantasia in cui la morte veniva chiamata a risolvere le più acute pene d’amore. Si pensi alla tragedia di Romeo e Giulietta, messa in scena da William Shakespeare alla fine del Cinquecento e si avrà una conferma di tutto ciò.
All’ambiente culturale inglese va ricondotta anche un’altra stupenda creazione da palcoscenico imperniata su una vicenda di disillusione amorosa che culmina in un suicidio. È l’opera Dido and Aeneas di Henry Purcell. Composta nel 1689 per le frequentatrici di un’educandato femminile che accoglieva il fior fiore della giovane aristocrazia londinese, l’opera basa il proprio contenuto sulla rielaborazione di un soggetto narrato duemila anni fa dal poeta latino Virgilio nell’Eneide, capolavoro della letteratura epica di Roma imperiale. Didone, bellissima regina di Cartagine, accogliendo nella propria reggia l’eroe troiano Enea in fuga dalla patria distrutta, se ne innamora perdutamente nonostante il voto di fedeltà fatto al primo marito, Sicheo, di cui è rimasta vedova. Enea, attratto da Didone, sarebbe disposto a sposare la bella regina e a regnare con lei sui cartaginesi, ma, spronato dagli dei a proseguire nel viaggio che lo porterà a fondare nientemeno che la “città eterna” (Roma), riprende la via del mare. Didone, non sopportando l’idea di aver perduto per sempre l’amore di Enea e disperata per aver mancato al voto fatto al marito defunto, si uccide.
Nell’aria più toccante dell’opera, la regina Didone, pochi istanti prima di darsi la morte, si rivolge alla sorella Belinda e invoca la sua pietà e comprensione:
La nostra epoca offre tante e tali possibilità di distrazione, da garantire un’infinità di rimedi non solo contro la noia, ma anche contro i più pungenti dispiaceri di cuore. Oggi è assai improbabile che un innamorato infelice arrivi al punto di togliersi la vita. Un tempo, gesti estremi di tal genere erano senz’altro più frequenti di quanto si verifichi attualmente fra noi e, se pure non lo erano nella realtà quotidiana, non si può negare che le generazioni passate nutrissero almeno una spiccata passione per spettacoli e narrazioni di fantasia in cui la morte veniva chiamata a risolvere le più acute pene d’amore. Si pensi alla tragedia di Romeo e Giulietta, messa in scena da William Shakespeare alla fine del Cinquecento e si avrà una conferma di tutto ciò.
All’ambiente culturale inglese va ricondotta anche un’altra stupenda creazione da palcoscenico imperniata su una vicenda di disillusione amorosa che culmina in un suicidio. È l’opera Dido and Aeneas di Henry Purcell. Composta nel 1689 per le frequentatrici di un’educandato femminile che accoglieva il fior fiore della giovane aristocrazia londinese, l’opera basa il proprio contenuto sulla rielaborazione di un soggetto narrato duemila anni fa dal poeta latino Virgilio nell’Eneide, capolavoro della letteratura epica di Roma imperiale. Didone, bellissima regina di Cartagine, accogliendo nella propria reggia l’eroe troiano Enea in fuga dalla patria distrutta, se ne innamora perdutamente nonostante il voto di fedeltà fatto al primo marito, Sicheo, di cui è rimasta vedova. Enea, attratto da Didone, sarebbe disposto a sposare la bella regina e a regnare con lei sui cartaginesi, ma, spronato dagli dei a proseguire nel viaggio che lo porterà a fondare nientemeno che la “città eterna” (Roma), riprende la via del mare. Didone, non sopportando l’idea di aver perduto per sempre l’amore di Enea e disperata per aver mancato al voto fatto al marito defunto, si uccide.
Nell’aria più toccante dell’opera, la regina Didone, pochi istanti prima di darsi la morte, si rivolge alla sorella Belinda e invoca la sua pietà e comprensione:
Quando giacerò sottoterra,
non dimenticatemi;
dimenticate piuttosto
il mio tragico destino.
Verità d'Amore: Therese e Ludwig
un amore a senso unico
Ludwig van BEETHOVEN (1770-1827)
“Für Elise”, per pianoforte
Ludwig van Beethoven, uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi, fu un uomo tanto geniale quanto infelice. Da bambino, a Bonn, sua città natale, aveva subito le angherie di un padre alcolizzato e violento, il quale, fallito come cantante d’opera, s’era messo in testa di tirare a campare facendo di proprio figlio un fanciullo prodigio al pari di Mozart; ma Ludwig era un ragazzo con tutt’altro destino. Raggiunta l’età di trent’anni, affermatosi a Vienna come pianista e compositore di formidabile temperamento, si trovò a dover scendere a patti con la più grande sciagura che possa colpire un musicista: la progressiva e irreversibile perdita del senso dell’udito.
Condannato alla solitudine dalla sua menomazione non meno che dalla sua scontrosa fierezza, Beethoven sognò per tutta la vita di costruire attorno a sé il calore di una famiglia, ma ogni suo tentativo di trovare moglie si risolse in un fallimento; a dispetto della straordinaria profondità del suo mondo interiore, era un uomo scostante e spesso inavvicinabile per la stravaganza di molti suoi comportamenti e per la sgradevolezza di certe sue abitudini. A parecchie giovani fece la corte, ma mai con successo. Una in particolare merita di essere qui ricordata. Si chiamava Therese Malfatti ed era nipote del medico di origine italiana che lo aveva in cura a Vienna.
Therese, frequentata nella primavera del 1810, aveva la metà degli anni del quarantenne Beethoven e non voleva saperne di corrispondere all’amore di colui che, se anche era il più grande artista musicale del momento, era pur sempre un tipo pieno di problemi, che viveva nel più completo disordine e con scarsissima cura della propria persona. Dopo alcuni infruttuosi tentativi, fu lo stesso compositore a rendersi conto della impossibilità di fare breccia nel cuore della bella Therese. Smise perciò di stringerla d’assedio con una lettera che conteneva, fra l’altro, le seguenti parole: “Addio, amata Therese. Vi auguro tutto ciò che c’è di bello e di buono nella vita. Quando ripenserete a me, fatelo con serenità. Dimenticate le mie follie”.
Nei giorni immediatamente precedenti a questo amaro congedo, Beethoven le aveva dedicato un breve pezzo per pianoforte intitolandolo Für Therese (“per Teresa”). Il manoscritto fu ritrovato fra le carte di Therese Malfatti dopo la sua morte, avvenuta nel 1851; nel frattempo, però, il suo contenuto era stato dato alle stampe da un editore un po’ distratto il quale, decifrando frettolosamente la pessima grafia del maestro, l’aveva pubblicato sotto il titolo di Für Elise: un errore destinato a passare alla storia, vista l’attuale planetaria celebrità della melodia di “Per Elisa”.
Ludwig van Beethoven, uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi, fu un uomo tanto geniale quanto infelice. Da bambino, a Bonn, sua città natale, aveva subito le angherie di un padre alcolizzato e violento, il quale, fallito come cantante d’opera, s’era messo in testa di tirare a campare facendo di proprio figlio un fanciullo prodigio al pari di Mozart; ma Ludwig era un ragazzo con tutt’altro destino. Raggiunta l’età di trent’anni, affermatosi a Vienna come pianista e compositore di formidabile temperamento, si trovò a dover scendere a patti con la più grande sciagura che possa colpire un musicista: la progressiva e irreversibile perdita del senso dell’udito.
Condannato alla solitudine dalla sua menomazione non meno che dalla sua scontrosa fierezza, Beethoven sognò per tutta la vita di costruire attorno a sé il calore di una famiglia, ma ogni suo tentativo di trovare moglie si risolse in un fallimento; a dispetto della straordinaria profondità del suo mondo interiore, era un uomo scostante e spesso inavvicinabile per la stravaganza di molti suoi comportamenti e per la sgradevolezza di certe sue abitudini. A parecchie giovani fece la corte, ma mai con successo. Una in particolare merita di essere qui ricordata. Si chiamava Therese Malfatti ed era nipote del medico di origine italiana che lo aveva in cura a Vienna.
Therese, frequentata nella primavera del 1810, aveva la metà degli anni del quarantenne Beethoven e non voleva saperne di corrispondere all’amore di colui che, se anche era il più grande artista musicale del momento, era pur sempre un tipo pieno di problemi, che viveva nel più completo disordine e con scarsissima cura della propria persona. Dopo alcuni infruttuosi tentativi, fu lo stesso compositore a rendersi conto della impossibilità di fare breccia nel cuore della bella Therese. Smise perciò di stringerla d’assedio con una lettera che conteneva, fra l’altro, le seguenti parole: “Addio, amata Therese. Vi auguro tutto ciò che c’è di bello e di buono nella vita. Quando ripenserete a me, fatelo con serenità. Dimenticate le mie follie”.
Nei giorni immediatamente precedenti a questo amaro congedo, Beethoven le aveva dedicato un breve pezzo per pianoforte intitolandolo Für Therese (“per Teresa”). Il manoscritto fu ritrovato fra le carte di Therese Malfatti dopo la sua morte, avvenuta nel 1851; nel frattempo, però, il suo contenuto era stato dato alle stampe da un editore un po’ distratto il quale, decifrando frettolosamente la pessima grafia del maestro, l’aveva pubblicato sotto il titolo di Für Elise: un errore destinato a passare alla storia, vista l’attuale planetaria celebrità della melodia di “Per Elisa”.
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