un’opera teatrale per cantanti, musicisti e ballerini
Leonard Bernstein (1918-1990) è una figura che non ha quasi bisogno di presentazione: immenso direttore, pianista di alto livello, divulgatore efficace e convincente, compositore eclettico che spazia dalla musica da camera alla sinfonia fino al musical (chi non ha mai sentito parlare di West Side Story?). La storia che oggi raccontiamo è quella di una tra le sue composizioni più importanti, eseguita per la prima volta 50 anni fa: si tratta della più complessa, discussa e controversa di tutta la sua produzione.
Con un curriculum come quello che abbiamo visto e la sua fama mondiale ormai consolidata, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 il buon Lenny è già una leggenda vivente. Non stupisce quindi il fatto che Jacqueline Kennedy Onassis, vedova del compianto JFK, gli chieda di comporre qualcosa per l’inaugurazione del John F. Kennedy Center for Performing Arts di Washington. È in questo particolare contesto che nasce MASS, ovvero “Messa”.
Aspettate un attimo: qualcosa non torna. Una Messa, che è musica per una celebrazione? E cosa ci sarà mai da celebrare in un periodo come quello della presidenza Nixon, con la guerra in Vietnam giunta ad un punto critico, l’esercito impantanato, i morti che continuano ad aumentare e la protesta che si riversa nelle strade?
Una musica liturgica con testo latino malgrado il Concilio Vaticano II abbia da poco riformato la struttura e la lingua della celebrazione, avvicinando il rito alla gente (secondo i sostenitori) o buttando alle ortiche la tradizione secolare (secondo i detrattori)?
Una musica che è un viaggio alla ricerca di un senso, in un’epoca in cui la gente vuole risposte e le vuole subito, scende in piazza per pretenderle, contesta la mentalità vecchia e non si accontenta delle solite frasi preconfezionate?
Con un curriculum come quello che abbiamo visto e la sua fama mondiale ormai consolidata, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 il buon Lenny è già una leggenda vivente. Non stupisce quindi il fatto che Jacqueline Kennedy Onassis, vedova del compianto JFK, gli chieda di comporre qualcosa per l’inaugurazione del John F. Kennedy Center for Performing Arts di Washington. È in questo particolare contesto che nasce MASS, ovvero “Messa”.
Aspettate un attimo: qualcosa non torna. Una Messa, che è musica per una celebrazione? E cosa ci sarà mai da celebrare in un periodo come quello della presidenza Nixon, con la guerra in Vietnam giunta ad un punto critico, l’esercito impantanato, i morti che continuano ad aumentare e la protesta che si riversa nelle strade?
Una musica liturgica con testo latino malgrado il Concilio Vaticano II abbia da poco riformato la struttura e la lingua della celebrazione, avvicinando il rito alla gente (secondo i sostenitori) o buttando alle ortiche la tradizione secolare (secondo i detrattori)?
Una musica che è un viaggio alla ricerca di un senso, in un’epoca in cui la gente vuole risposte e le vuole subito, scende in piazza per pretenderle, contesta la mentalità vecchia e non si accontenta delle solite frasi preconfezionate?
Come si capisce, la questione è problematica. La risposta di Bernstein convince molti, scontenta altrettanti, sconvolge tutti, a partire dal titolo stesso. MASS: A Theatre Piece for Singers, Players, and Dancers (MASS: un’opera teatrale per cantanti, musicisti e ballerini) debutta l’8 settembre 1971, e lascia letteralmente di sasso per la strana coesistenza di testi latini (le parti tradizionali della Messa), brani in inglese (gli interventi dei personaggi) e alcuni versi in ebraico.
Per non parlare della musica: si va dalla polifonia più tradizionale (come il delicato Almighty Father) a quella più ardita (il Kyrie iniziale per voci registrate, che in parte ricorda certe soluzioni alla Orff), passando per il musical di Broadway (ad esempio il God said, la sezione della Confession, il Gloria tibi con la sua ritmica coinvolgente) e per la ballad (la bellissima A Simple Song, diventata un vero classico del repertorio). Manco a dirlo, le risorse schierate in campo sono faraoniche: il Celebrante (vera chiave della narrazione), un coro di adulti, uno di voci bianche, i cantanti di strada, gli accoliti danzanti, un ampio organico orchestrale, una rock band, una blues band, una marching band e chi più ne ha più ne metta.
Come si capisce, la questione è problematica. La risposta di Bernstein convince molti, scontenta altrettanti, sconvolge tutti, a partire dal titolo stesso. MASS: A Theatre Piece for Singers, Players, and Dancers (MASS: un’opera teatrale per cantanti, musicisti e ballerini) debutta l’8 settembre 1971, e lascia letteralmente di sasso per la strana coesistenza di testi latini (le parti tradizionali della Messa), brani in inglese (gli interventi dei personaggi) e alcuni versi in ebraico.
Per non parlare della musica: si va dalla polifonia più tradizionale (come il delicato Almighty Father) a quella più ardita (il Kyrie iniziale per voci registrate, che in parte ricorda certe soluzioni alla Orff), passando per il musical di Broadway (ad esempio il God said, la sezione della Confession, il Gloria tibi con la sua ritmica coinvolgente) e per la ballad (la bellissima A Simple Song, diventata un vero classico del repertorio). Manco a dirlo, le risorse schierate in campo sono faraoniche: il Celebrante (vera chiave della narrazione), un coro di adulti, uno di voci bianche, i cantanti di strada, gli accoliti danzanti, un ampio organico orchestrale, una rock band, una blues band, una marching band e chi più ne ha più ne metta.
La storia che Bernstein costruisce, coadiuvato da Stephen Schwartz (e con un piccolo “cameo” del grande cantautore Paul Simon che firma alcuni versi del Gloria) è molto singolare e ruota intorno alla figura del Celebrante, simbolo di un’umanità in cerca di un senso e che vede le proprie certezze sgretolarsi sotto il peso del dubbio. Durante la liturgia il protagonista viene costantemente interrotto da vari personaggi, che con le loro riflessioni acute e le loro provocazioni lo spingono inesorabilmente ad interrogarsi sul senso della vita. A mettersi in discussione. A prendere atto che non troverà certo la risposta nei gesti di una routine a cui inconsciamente ha già smesso di credere senza riuscire ad ammetterlo. Giunto all’apice della sua crisi, di fronte all’inflessibile e violento Dona nobis pacem scandito dal coro, il Celebrante scaglia in terra calice e ostensorio, si toglie i paramenti e si accascia al suolo in preda ad un crollo psicologico. La situazione trova lentamente un nuovo equilibrio sotto forma di una fede più semplice, meno fossilizzata ma più intima e convinta; la liturgia giunge quindi al termine e tutto si conclude con una pacificazione che lascia comunque aperta la porta a molti interrogativi.
La storia che Bernstein costruisce, coadiuvato da Stephen Schwartz (e con un piccolo “cameo” del grande cantautore Paul Simon che firma alcuni versi del Gloria) è molto singolare e ruota intorno alla figura del Celebrante, simbolo di un’umanità in cerca di un senso e che vede le proprie certezze sgretolarsi sotto il peso del dubbio. Durante la liturgia il protagonista viene costantemente interrotto da vari personaggi, che con le loro riflessioni acute e le loro provocazioni lo spingono inesorabilmente ad interrogarsi sul senso della vita. A mettersi in discussione. A prendere atto che non troverà certo la risposta nei gesti di una routine a cui inconsciamente ha già smesso di credere senza riuscire ad ammetterlo. Giunto all’apice della sua crisi, di fronte all’inflessibile e violento Dona nobis pacem scandito dal coro, il Celebrante scaglia in terra calice e ostensorio, si toglie i paramenti e si accascia al suolo in preda ad un crollo psicologico. La situazione trova lentamente un nuovo equilibrio sotto forma di una fede più semplice, meno fossilizzata ma più intima e convinta; la liturgia giunge quindi al termine e tutto si conclude con una pacificazione che lascia comunque aperta la porta a molti interrogativi.
Prevedibili e scomposte le reazioni istituzionali di fronte ad un simile lavoro. I cattolici non si schierano in maniera univoca, ma una parte delle diocesi americane si scaglia all’attacco e invita a boicottare le rappresentazioni per presunta blasfemia. Ironia della sorte, MASS sarà poi rappresentata in Vaticano, anche se in forma meno radicale, durante il Giubileo del 2000 (pare su espressa volontà di Giovanni Paolo II, convinto estimatore del suo profondo messaggio).
Anche le autorità civili prendono contromisure. L’FBI, che ha già messo l’autore in lista nera per la sua vicinanza al gesuita pacifista Daniel Berrigan e per le sospette simpatie comuniste, ipotizza che il testo possa veicolare messaggi occulti contro la guerra in Vietnam e mette Bernstein sotto osservazione. Su consiglio dell’FBI e del suo entourage il presidente Nixon diserta la prima, accampando scuse sul fatto di non voler rubare la scena a Jacqueline Kennedy durante l’inaugurazione del Center.
Arriviamo dunque alla stampa, e anche qui nessuna sorpresa: all’indomani della prima volano le bastonate, con il celebre critico del New York Times Harold C. Schonberg che stronca il lavoro senza mezzi termini definendolo “kitsch alla moda” e “uno sforzo pseudoserio, a buon mercato e volgare, di ripensare la Messa”. Lapidario anche il commento di Robert Craft, che suggerisce a Bernstein di cambiare il titolo in “MASS: il Musical”.
Prevedibili e scomposte le reazioni istituzionali di fronte ad un simile lavoro. I cattolici non si schierano in maniera univoca, ma una parte delle diocesi americane si scaglia all’attacco e invita a boicottare le rappresentazioni per presunta blasfemia. Ironia della sorte, MASS sarà poi rappresentata in Vaticano, anche se in forma meno radicale, durante il Giubileo del 2000 (pare su espressa volontà di Giovanni Paolo II, convinto estimatore del suo profondo messaggio).
Anche le autorità civili prendono contromisure. L’FBI, che ha già messo l’autore in lista nera per la sua vicinanza al gesuita pacifista Daniel Berrigan e per le sospette simpatie comuniste, ipotizza che il testo possa veicolare messaggi occulti contro la guerra in Vietnam e mette Bernstein sotto osservazione. Su consiglio dell’FBI e del suo entourage il presidente Nixon diserta la prima, accampando scuse sul fatto di non voler rubare la scena a Jacqueline Kennedy durante l’inaugurazione del Center.
Arriviamo dunque alla stampa, e anche qui nessuna sorpresa: all’indomani della prima volano le bastonate, con il celebre critico del New York Times Harold C. Schonberg che stronca il lavoro senza mezzi termini definendolo “kitsch alla moda” e “uno sforzo pseudoserio, a buon mercato e volgare, di ripensare la Messa”. Lapidario anche il commento di Robert Craft, che suggerisce a Bernstein di cambiare il titolo in “MASS: il Musical”.
Se i pareri espressi dalle autorità ecclesiastiche e civili, a distanza di 50 anni, possono risultare ingiustificati e ai limiti del ridicolo, le opinioni della critica sono almeno in parte condivisibili: questa composizione, estesa ed impegnativa (dura quasi due ore), non è del tutto immediata e ancora oggi divide gli animi tra chi la considera un capolavoro e chi un confuso minestrone. Lasciando da parte il tifo da stadio, MASS non è classificabile secondo un metro di giudizio canonico: (non) è musica sacra, (non) è musical, (non) è rock, (non) è colta. Di sicuro alterna momenti intensi e riflessivi ad altri più smaccatamente caciaroni e pacchiani, che tuttavia ben rispecchiano l’eclettismo estroverso del suo autore.
Una cosa è certa: l’ascolto di MASS richiede una certa attenzione e una mente aperta, sgombra da pregiudizi che porterebbero inevitabilmente a valutarla per ciò che non è. Se vi va di intraprendere questo viaggio, accomodatevi: vi porterà alla scoperta di autentiche gemme musicali, che da sole valgono tutto il percorso che avrete fatto per raggiungerle.
Se i pareri espressi dalle autorità ecclesiastiche e civili, a distanza di 50 anni, possono risultare ingiustificati e ai limiti del ridicolo, le opinioni della critica sono almeno in parte condivisibili: questa composizione, estesa ed impegnativa (dura quasi due ore), non è del tutto immediata e ancora oggi divide gli animi tra chi la considera un capolavoro e chi un confuso minestrone. Lasciando da parte il tifo da stadio, MASS non è classificabile secondo un metro di giudizio canonico: (non) è musica sacra, (non) è musical, (non) è rock, (non) è colta. Di sicuro alterna momenti intensi e riflessivi ad altri più smaccatamente caciaroni e pacchiani, che tuttavia ben rispecchiano l’eclettismo estroverso del suo autore.
Una cosa è certa: l’ascolto di MASS richiede una certa attenzione e una mente aperta, sgombra da pregiudizi che porterebbero inevitabilmente a valutarla per ciò che non è. Se vi va di intraprendere questo viaggio, accomodatevi: vi porterà alla scoperta di autentiche gemme musicali, che da sole valgono tutto il percorso che avrete fatto per raggiungerle.
Marco Facchini
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