l'ultimo difensore del XIX secolo
Il 2021 si contraddistingue per alcuni anniversari musicali di grande importanza, tra i quali il centenario della nascita di Astor Piazzolla, i 500 anni dalla scomparsa di Josquin Desprez, e i 100 di quella di Camille Saint-Saëns. Proprio di quest’ultimo andiamo ora a tracciare un breve ritratto: stiamo parlando di un compositore che ha attraversato da protagonista il XIX secolo, vivendolo talmente intensamente da restarne completamente immerso e da diventarne l’estremo difensore in un mondo che ormai aveva preso un’altra direzione. Ma andiamo con ordine.
Pensieri
Cominciamo levandoci il cappello con grande rispetto di fronte ad una delle menti più prodigiose nella storia dell’umanità. Il nostro protagonista era un pianista di livello altissimo, capace di memorizzare composizioni eseguite da altri dopo averle ascoltate in concerto, di leggere perfettamente a prima vista, di mantenere un virtuosismo eccelso allo strumento anche in età avanzatissima. Tanto per dirne una, la leggenda narra che a uno dei suoi primi concerti, quando ancora era un bambino, avesse offerto come bis un’intera Sonata di Beethoven. Selezionata da lui? Ma manco per niente! Una a caso delle trentadue, scelta al momento dal pubblico.
Anche come organista se la cavava egregiamente, al punto che il buon Liszt lo considerava il migliore d’Europa. Direi che siamo a cavallo, no?
E non finisce qui: masticava il latino dall’età di otto anni, era un appassionato di entomologia, un astronomo e matematico di ottimo livello, un esperto di acustica, si dilettava di filosofia e archeologia. Praticamente, un uomo di enorme cultura e vastità di interessi, la cui profondità di pensiero resta invidiabile ancora oggi.
Cominciamo levandoci il cappello con grande rispetto di fronte ad una delle menti più prodigiose nella storia dell’umanità. Il nostro protagonista era un pianista di livello altissimo, capace di memorizzare composizioni eseguite da altri dopo averle ascoltate in concerto, di leggere perfettamente a prima vista, di mantenere un virtuosismo eccelso allo strumento anche in età avanzatissima. Tanto per dirne una, la leggenda narra che a uno dei suoi primi concerti, quando ancora era un bambino, avesse offerto come bis un’intera Sonata di Beethoven. Selezionata da lui? Ma manco per niente! Una a caso delle trentadue, scelta al momento dal pubblico.
Anche come organista se la cavava egregiamente, al punto che il buon Liszt lo considerava il migliore d’Europa. Direi che siamo a cavallo, no?
E non finisce qui: masticava il latino dall’età di otto anni, era un appassionato di entomologia, un astronomo e matematico di ottimo livello, un esperto di acustica, si dilettava di filosofia e archeologia. Praticamente, un uomo di enorme cultura e vastità di interessi, la cui profondità di pensiero resta invidiabile ancora oggi.
Parole
Ecco, qui arriva una nota dolente. Al Saint-Saëns raffinatissimo intellettuale fa da contraltare uno scrittore dalla penna acuta e cinica, che non si tira indietro quando si tratta di bastonare i colleghi, al punto di risultare irritante.
Lo sapeva bene il povero César Franck, che alla prima del suo Quintetto aveva visto Saint-Saëns (che non apprezzava questo magnifico capolavoro pur essendone il dedicatario) alzarsi sdegnato e uscire di scena dopo l’esecuzione, lasciando la parte aperta sul piano senza nemmeno rimanere per incassare gli applausi. A distanza di anni da questo sgarbo, Saint-Saëns si permette di rincarare la dose sparando a palle incatenate su un’altra pagina del collega, il Preludio, Corale e Fuga: “Un pezzo di esecuzione disgraziata e scomoda, in cui il Corale non è un Corale e la Fuga non è una Fuga, poiché perde di coraggio una volta che la sua esposizione è terminata e continua attraverso interminabili digressioni, che non la fanno sembrare una fuga più di quanto uno zoofita non assomigli ad un mammifero […]”.
Che eleganza, vero? E non parliamo di Debussy: poco tempo dopo la sua morte, Saint-Saëns scaglia un attacco velenoso (forse anche un po’ invidioso?) in una lettera: “Pubblica un pezzo dall’attraente nome ‘Jardins sous la pluie’ […] e ci regala un’interminabile serie di arpeggi su ‘Do, do, l’enfant do’ e ‘Nous n’irons plus au bois’“. E ancora prosegue: “L’Après-midi d’un faune ha un bel suono, ma in esso non c’è la minima idea veramente musicale: non è un pezzo di musica, così come la tavolozza su cui un pittore ha lavorato non è un dipinto […] Debussy non ha creato uno stile; ha coltivato l’assenza di stile tanto quanto l’assenza di logica e di buonsenso”. Per dovere di cronaca, da vivo il buon Claude non era mai stato indulgente con l’anziano collega: “Ho orrore del sentimentalismo, e non posso dimenticare che il suo nome è Saint-Saëns”.
Tutto qui? No: anche con Maurice Ravel il nostro protagonista si è sempre trovato ai ferri corti, con reciproci scambi di frecciate. E già che ci siamo, potremmo chiederci come Saint-Saëns avesse reagito alla famigerata prima del Sacre du printemps di Stravinskij. La risposta è semplice: alzandosi e abbandonando la sala alle prime note del fagotto. Manco il tempo di fischiare.
Ecco, qui arriva una nota dolente. Al Saint-Saëns raffinatissimo intellettuale fa da contraltare uno scrittore dalla penna acuta e cinica, che non si tira indietro quando si tratta di bastonare i colleghi, al punto di risultare irritante.
Lo sapeva bene il povero César Franck, che alla prima del suo Quintetto aveva visto Saint-Saëns (che non apprezzava questo magnifico capolavoro pur essendone il dedicatario) alzarsi sdegnato e uscire di scena dopo l’esecuzione, lasciando la parte aperta sul piano senza nemmeno rimanere per incassare gli applausi. A distanza di anni da questo sgarbo, Saint-Saëns si permette di rincarare la dose sparando a palle incatenate su un’altra pagina del collega, il Preludio, Corale e Fuga: “Un pezzo di esecuzione disgraziata e scomoda, in cui il Corale non è un Corale e la Fuga non è una Fuga, poiché perde di coraggio una volta che la sua esposizione è terminata e continua attraverso interminabili digressioni, che non la fanno sembrare una fuga più di quanto uno zoofita non assomigli ad un mammifero […]”.
Che eleganza, vero? E non parliamo di Debussy: poco tempo dopo la sua morte, Saint-Saëns scaglia un attacco velenoso (forse anche un po’ invidioso?) in una lettera: “Pubblica un pezzo dall’attraente nome ‘Jardins sous la pluie’ […] e ci regala un’interminabile serie di arpeggi su ‘Do, do, l’enfant do’ e ‘Nous n’irons plus au bois’“. E ancora prosegue: “L’Après-midi d’un faune ha un bel suono, ma in esso non c’è la minima idea veramente musicale: non è un pezzo di musica, così come la tavolozza su cui un pittore ha lavorato non è un dipinto […] Debussy non ha creato uno stile; ha coltivato l’assenza di stile tanto quanto l’assenza di logica e di buonsenso”. Per dovere di cronaca, da vivo il buon Claude non era mai stato indulgente con l’anziano collega: “Ho orrore del sentimentalismo, e non posso dimenticare che il suo nome è Saint-Saëns”.
Tutto qui? No: anche con Maurice Ravel il nostro protagonista si è sempre trovato ai ferri corti, con reciproci scambi di frecciate. E già che ci siamo, potremmo chiederci come Saint-Saëns avesse reagito alla famigerata prima del Sacre du printemps di Stravinskij. La risposta è semplice: alzandosi e abbandonando la sala alle prime note del fagotto. Manco il tempo di fischiare.
Opere
Arriviamo quindi a qualche piccolo e (necessariamente) incompleto suggerimento per una prima presa di contatto con il nostro protagonista. Se mi è concesso un consiglio personale, non è il caso di cominciare dall’opera per pianoforte solo: si tratta di una produzione elegante e leggera, ma la cui discontinuità qualitativa può portare fuori strada e fornire un’immagine distorta del compositore. Il Saint-Saëns pianistico mostra talvolta più mestiere che ispirazione e non ha mai goduto di particolare popolarità nei programmi, con l’eccezione degli Studi op. 111 e dell’ormai raro Capriccio su musiche dell’Alceste di Gluck. Ogni tanto capita ancora di ascoltare una vera chicca, ossia il suo Studio in forma di valzer (tratto dall’op.52) come bis: ascoltate l’incisione di Alfred Cortot, inchinatevi di fronte ad un’interpretazione a dir poco immensa.
Arriviamo quindi a qualche piccolo e (necessariamente) incompleto suggerimento per una prima presa di contatto con il nostro protagonista. Se mi è concesso un consiglio personale, non è il caso di cominciare dall’opera per pianoforte solo: si tratta di una produzione elegante e leggera, ma la cui discontinuità qualitativa può portare fuori strada e fornire un’immagine distorta del compositore. Il Saint-Saëns pianistico mostra talvolta più mestiere che ispirazione e non ha mai goduto di particolare popolarità nei programmi, con l’eccezione degli Studi op. 111 e dell’ormai raro Capriccio su musiche dell’Alceste di Gluck. Ogni tanto capita ancora di ascoltare una vera chicca, ossia il suo Studio in forma di valzer (tratto dall’op.52) come bis: ascoltate l’incisione di Alfred Cortot, inchinatevi di fronte ad un’interpretazione a dir poco immensa.
Molto più interessanti le composizioni per pianoforte e orchestra, tra le quali godono ancora di fama il Secondo e il Quinto concerto (il cosiddetto “Egiziano”, che brilla per il superbo trattamento timbrico e per il rapporto tra solista e orchestra, sempre perfettamente bilanciato). Confesso di avere un debole per il Quarto concerto e per la breve Rhapsodie d’Auvergne, ma mi rendo conto che non si tratta di un giudizio condiviso da molti.
Altri capolavori da ascoltare attentamente sono la celebre Danza Macabra per violino e orchestra, spesso utilizzata come colonna sonora in varie serie tv, e la Terza Sinfonia, che si distingue per l’impiego dell’organo in un contesto orchestrale.
Si può forse tralasciare il coloratissimo e divertente Carnevale degli animali? Beh, ovviamente no: si tratta sicuramente della composizione più nota di Saint-Saëns. E sapete qual è il grande paradosso? Che il suo autore detestava questa composizione, ritenendola una sciocchezza, al punto di rifiutarsi di pubblicarla (e infatti la prima edizione completa risale al 1922, un anno dopo la sua scomparsa).
Omissioni
Le uniche omissioni, per la verità, non sono di Saint-Saëns ma di chi scrive, se non altro per ragioni di spazio. Ci sarebbe ancora tanto da dire su di lui, sulla sua turbolenta vita personale segnata da un matrimonio ai limiti del paradossale e da storielle sotto falsa identità tra Algeria e Canarie, sulla sua opera Samson et Dalila, sulle sue finezze di orchestratore. Lasciamo da parte il gossip e i tecnicismi e tiriamo le somme. Fu un buon compositore? Sicuramente. Fu un grande virtuoso? Assolutamente sì. A proposito, non lasciatevi sfuggire le poche incisioni che ci ha lasciato: malgrado la sua età avanzata, dimostrano una scioltezza virtuosistica da far paura.
Si merita la fama di dinosauro passatista e brontolone? Solo se leggiamo la sua figura con gli occhi del ‘900. La risposta invece è no se lo inquadriamo per quello che è stato realmente: una persona avida di conoscenza; un erudito nel senso vero del termine, eclettico ed enciclopedico; un intellettuale in possesso di tutti i mezzi culturali e musicali per capire e apprezzare la novità ma talmente immerso nella grande tradizione da non volerne uscire; un compositore che ha cominciato il suo viaggio da paladino di un nobile ideale, e che è arrivato alla fine del suo percorso sentendosi un pesce fuor d’acqua.
Vorrei però spezzare un’ultima lancia, per quel poco che conta: non sono sicuro che una persona così, calata in un’epoca di costante dinamismo come fu il ‘900, avrebbe potuto sentirsi diversamente.
Le uniche omissioni, per la verità, non sono di Saint-Saëns ma di chi scrive, se non altro per ragioni di spazio. Ci sarebbe ancora tanto da dire su di lui, sulla sua turbolenta vita personale segnata da un matrimonio ai limiti del paradossale e da storielle sotto falsa identità tra Algeria e Canarie, sulla sua opera Samson et Dalila, sulle sue finezze di orchestratore. Lasciamo da parte il gossip e i tecnicismi e tiriamo le somme. Fu un buon compositore? Sicuramente. Fu un grande virtuoso? Assolutamente sì. A proposito, non lasciatevi sfuggire le poche incisioni che ci ha lasciato: malgrado la sua età avanzata, dimostrano una scioltezza virtuosistica da far paura.
Si merita la fama di dinosauro passatista e brontolone? Solo se leggiamo la sua figura con gli occhi del ‘900. La risposta invece è no se lo inquadriamo per quello che è stato realmente: una persona avida di conoscenza; un erudito nel senso vero del termine, eclettico ed enciclopedico; un intellettuale in possesso di tutti i mezzi culturali e musicali per capire e apprezzare la novità ma talmente immerso nella grande tradizione da non volerne uscire; un compositore che ha cominciato il suo viaggio da paladino di un nobile ideale, e che è arrivato alla fine del suo percorso sentendosi un pesce fuor d’acqua.
Vorrei però spezzare un’ultima lancia, per quel poco che conta: non sono sicuro che una persona così, calata in un’epoca di costante dinamismo come fu il ‘900, avrebbe potuto sentirsi diversamente.
Marco Facchini
Per il mio analfabetismo musicale sugli autori e compositori, non ho avuto particolari occasione di apprezzare Saint-Saëns. La presentazione di Marco mi ha fatto ricredermi.
Complimenti a Marco e a tutta l’associazione del Palinsesto.